La carezza di Genet

La carezza di Genet

La vicenda la conosciamo tutti: all’alba del 24 agosto 2017 la polizia si presenta in Piazza Indipendenza a Roma per sgomberare i molti rifugiati, principalmente eritrei ed etiopi, accampati in strada. L’acqua gelida degli idranti sveglia le donne, gli uomini, gli anziani e i pochi bambini che sono costretti a scappare, ancora con il sonno negli occhi, senza aver realizzato bene quello che sta succedendo. A quelle tante famiglie, adesso, non rimane più nulla, nemmeno la strada. E tra i commenti aberranti dei neofascisti e le frasi shock di un funzionario di polizia (“spaccategli un braccio, devono sparire”) l’emergenza umanitaria è diventata, nel giro di due giorni, ben più di un trend su Twitter. Ad aver turbato gli animi di molti è l’immagine di una donna eritrea di 40 anni fotografata in lacrime mentre una guardia le tiene il volto tra le mani.

Genet di fatto è comparsa, senza alcun tipo di riguardo, su tutte le prime pagine italiane. Superfluo sarebbe parlare di consenso e legittimità della pubblicazione: senza poterlo decidere, da essere umano letteralmente invisibile la donna si è ritrovata ad essere famosa come una superstar. Vuoi per clickbating, vuoi per la volontà dei media di presentare al pubblico l’ennesima storia strappalacrime, vuoi per un tentativo maldestro di addolcire un’azione di violenza ingiustificata verso persone inermi. In ogni caso, Genet è stata sbattuta su tutti i giornali. E a ottenere la massima visibilità non sono state le sue parole, la sua storia o la sua rabbia, ma la carezza non richiesta di un uomo bianco. Un poliziotto che ha preso parte proprio a quell’azione che le ha tolto tutto, anche se le rimaneva poco. Pure la strada, già. D’altronde lei ce lo dice, di non vedere il bello in quell’immagine. “Ci buttate via come una scarpa rotta”. E se lei stessa non ha colto alcuna bontà in quel gesto, perché dovremmo farlo noi?

Io il bello, nell’immagine, non lo vedo. Non intendo scadere in considerazioni semplicistiche e unilaterali sulle forze dell’ordine: anche ammettendo (seppur a fatica) le buone intenzioni del poliziotto, non vedo niente che mi possa commuovere. Al contrario, vedo lo sfregio verso una donna che ha perso tutto. Anche se involontario, per quanto mi riguarda, rimane tale. Non si tratta di un fiorellino che sboccia tra i rifiuti, qualcosa di raro, bello ed effimero in mezzo allo scempio. O il santo martire che perdona i suoi carnefici, o la conversione di San Paolo. No, in questo caso l’esistenza stessa del gesto compassionevole dell’uomo è resa possibile dalla precedente oppressione. Cosa c’è di buono in questo? Cosa dovremmo celebrare? Forse chi ci butta in mezzo alla strada con il sorriso? O chi ci priva di ogni speranza rimasta con un bel buffetto sulla testa? Questo la renderebbe meno oppressione di quello che è?
E dov’è la dignità di Genet, la protagonista della notizia virale, il volto che tutti noi ora conosciamo così bene? Lei cosa ci ha guadagnato, esattamente, da tutta questa storia? Non ha avuto nemmeno la possibilità di dar voce al suo popolo, o di aprire uno spiraglio verso una maggiore consapevolezza sulla questione migranti, o in generale di avere una scelta. No, Genet è diventata il mezzo per riscattare quell’uomo che, asciugandole le lacrime sul viso, è quasi celebrato come un mezzo eroe. Costretto alla violenza da cause superiori ma umano e magnanimo, come Napoleone ad Eylau.

L’uomo bianco si è lavato la coscienza ancora una volta.

Vita da body builder

Vita da body builder

Sono pigra. Lo sono più o meno dal giorno in cui sono venuta al mondo e faccio davvero degli sforzi incredibili per costringermi a fare sport. Mi ci posso anche mettere di impegno, e a volte ci riesco, ma la fatica che faccio a scendere di casa in tuta per fare mezzo isolato rischiando di stramazzare al suolo è davvero indescrivibile. Se a questo aggiungiamo che me piace magna’…
Ecco, quando da piccola le persone mi dicevano che da grande sarei potuta diventare quello che volevo, in cuor loro sapevano che c’era qualcosa che non sarei mai, mai, mai e poi mai potuta essere, nemmeno tra un milione di anni: una sportiva.

Sostanzialmente, quindi, gli sportivi li guardo da lontano e li ammiro proprio tanto. Chi va in palestra lo un po’ lo invidio, perché tutti i miei tentativi passati si sono sempre rivelati insuccessi completi.
Ma arriviamo al dunque: come li vedo io, i body builder e le body builder? Come persone altre, immensamente distanti da me. Non potrei seguire uno stile di vita così rigoroso nemmeno se la mia vita dipendesse da quello. Seriamente: se ne andasse della mia sopravvivenza, morirei. Non ho dubbi.
I body builder e le body builder sono persone che hanno fatto delle scelte che io non farei mai, intrapreso un percorso che per me sarebbe invivibile e col quale sono abbastanza sicura che non resisterei nemmeno due giorni. Ma ho imparato, anzi, sto ancora imparando, a essere rispettosa e tollerante verso le scelte di tutti e tutte, finché non arrivino in qualche modo a limitare la mia, di libertà.

Ecco perché mi sono irritata nell’assistere, in diverse occasioni, alle opinioni che le persone “come me” esprimevano riguardo la questione body building. L’episodio più recente (ultimo di una serie relativamente lunga, considerando che il culturismo non è di solito il primo argomento di conversazione tra noi bradipi) risale a ieri.
Siamo sui social, ancora una volta. Un gruppo relativo all’alimentazione sana, la dieta, lo sport, il dimagrimento e tutte quelle cose bellissime che sono sempre state una costante (non gradita) nella mia vita. Una ragazza pubblica un articolo che parla di una giovane body builder, arrivata a soli 24 anni a prestazioni fisiche straordinarie.
Alcune delle opinioni più popolari:
– che abominio della natura
– fa schifo, è orribile, non si può guardare, che orrore
– mi viene da vomitare
– non è femminile, sembra un uomo (x76543278234567)
– è innaturale QUINDI è sbagliato (ndr. uccidetemi ora)
– la vera donna ha le forme (ndr. fatelo)
Eccetera. Potrei andare avanti e cimentarmi col copia incolla, come ho fatto negli articoli precedenti, ma stavolta non è questo il punto. Vorrei concentrarmi sul pensiero condiviso più o meno da tutte le accanite commentatrici (donne), partendo da quelle che sostengono che senza maniglie dell’amore si sia “meno donne”, e arrivando a chi invece parlava di “scherzo della natura”. Si tratta della sempreverde “preoccupazione per la salute”, la stessa che sembra sorgere spontanea al primo avvistamento di una persona sovrappeso. “Non so se l’hai notato, ma sei grasso (grazie ar cazzo) e non so se lo sai ma questa non è salute (detto indistintamente a un obeso e a una persona con 4 kg in più presi durante il cenone diggiù)“.
Ecco, io che sono pigra, quando vedo una ragazza della mia età che ha raggiunto un tale livello di prestanza fisica, penso che io non lo farei mai. Perché non potrei e soprattutto perché non vorrei. Non mi interessa. Ma che qualcun altro scelga di farlo mi sta bene, mi allieta la giornata (oppure mi è indifferente), mi incuriosisce (oppure no), mi fa sicuramente nascere molte domande e soprattutto non mi impedisce di continuare a vivere la vita da lasagna che ho sempre vissuto. Nel caso i risultati fisici raggiunti dalla ragazza in questione non corrispondano ai miei canoni estetici (e qui potrei aprire una parentesi lunga come la Muraglia Cinese, ma lasciamo momentaneamente perdere), il massimo che potrei fare è esprimere la mia opinione in merito e finirla lì.
Invece no. Apparentemente bisogna erigersi a paladini della salute e delle scelte di vita. Perché qualcuno è convinto di sapere come una “vera donna” (il mio cuore cede) debba essere e soprattutto come debba apparire. Altri pensano di essere liberi di utilizzare parole offensive per descrivere una persona che non ha altra colpa se non quella di aver fatto scelte diverse dalle proprie. E la giustificazione per ogni insulto, ogni frase ignorante, ogni battuta discriminatoria che poteva essere evitata, è sempre la stessa. Anzi, sono due:
– se lei si concia così sa che riceverà critiche, quindi posso insultarla
– il suo stile di vita non è sano, quindi posso insultarla

Pensavo, ieri sera, a tutti quegli studiosi che nel corso della storia si sono rovinati la vista e la salute per lavorare, che ne so, nel buio e nella polvere e non compromettere manufatti artistici. O le ballerine di fama internazionale, che fin da piccole hanno costretto il loro corpo in posizioni “innaturali”. Agli atleti e le atlete olimpioniche, che hanno raggiunto risultati eccellenti consapevoli di compromettere talvolta il proprio fisico. Per rincorrere un obiettivo, signori e signore, talvolta occorre compiere sacrifici anche dolorosi. Marina Abramovic, famosissima body artist, ha sopportato violenze gravi, molestie sessuali, autolesioni e martoriazioni fisiche continue e nonostante ciò ha sempre deciso di portare a termine le proprie performance. Se una body builder decidesse di compromettere la sua salute – nella stessa misura in cui io decido di compromettere la mia stando seduta sul divano – per raggiungere un obiettivo, e pure se il suddetto fosse spingere il proprio fisico al limite, una cosa che altri considerano impensabile… ecco, se questo avvenisse: MA NON SAREBBERO STRACAZZI SUOI E BASTA?

Un saluto dal divano.

Siamo tutte zoccole

Siamo tutte zoccole

Un paio di giorni fa una mia carissima amica sbagliò una manovra mentre guidava. Tentò di girare a sinistra dal viale. Stava passando un signore in macchina, forse una di quelle persone che si veste bene per andare a lavoro e rincasa tardi salutando i figli con un buffetto sulla testa. Ha rallentato, il distinto signore; si è affacciato dal finestrino e ha urlato “zoccola”.

La mia amica è rimasta turbata. “Zoccola” non è un termine che tende a scivolare addosso senza fatica, si sa. Ha deciso di scrivere un post su Facebook per denunciare l’accaduto. Lo riporto:

Io, solo in qualità di donna mentre sono in macchina devo sentirmi urlare dal finestrino “zoccola” per una manovra sbagliata. Non un insulto qualunque, non “incapace”, non “ma cosa stai facendo”. No, l’insulto più appropriato secondo certe persone è “zoccola”. Ci fosse stato mio padre alla guida avrebbe ricevuto lo stesso trattamento? Sarebbe stato ferito in egual misura? Io non credo proprio.
PARITÀ DI GENERE, questa sconosciuta soprattutto nelle situazioni quotidiane, nelle situazioni comuni. C’è ancora tanto lavoro da fare.

Vi ho raccontato questo episodio in quanto premessa necessaria per introdurre la vera riflessione che mi ha spinta a scrivere questo articolo, ovvero l’utilizzo di termini che alludono, nel senso più strettamente letterale, al mestiere della “prostituta”. Pare proprio, infatti, che per la stragrande maggioranza delle persone che si trovano a dover denigrare una donna, sia molto difficile elaborare qualcosa che sia peggio di “troia”, “puttana”, “zoccola” ecc.
Sono insulti particolari, questi. Speciali. Perché sono insulti che tirano in ballo la sfera sessuale delle donne anche quando questa non c’entra assolutamente nulla. La professoressa mi ha bocciato? Che troia. Quella signora mi ha tagliato la strada? Sta puttana. La ragazza sbaglia la manovra? Zoccola.

Sotto lo status sopracitato, quello della mia amica, è esplosa una discussione che ha riguardato proprio l’impiego smodato di termini analoghi e il loro valore discriminante. Dopo un lungo scambio di vedute, non sempre pacifico (mea culpa), e tantissime puntualizzazioni riguardanti l’etimologia del termine rapportata al suo utilizzo attuale, sono infine emerse tre posizioni fondamentali:

1. M. scrive: “Stronza è peggio di zoccola però è meno discriminatorio”. Secondo lui, infatti, insulti unisex come “stronzo/a” andrebbero a intaccare le capacità della persona se non la sua vera essenza, mentre termini sessualizzati come “puttana” descriverebbero, seppur in maniera volgare, un mestiere. Infatti M. dice che “zoccola” “indica una professione, e le professioni di per sé non sono un insulto. Mentre Stronza intende proprio dire che sei Stronza”. Per M., comunque, i suddetti termini vengono spesso pronunciati con tono offensivo sebbene tecnicamente non lo siano. Non nega, quindi, che siano insulti gravi: sostiene però che non siano tra i più gravi in assoluto, anche se vengono rivolti esclusivamente alle donne.

2. C. ha una posizione molto diversa. Anche lui asserisce che un insulto come “zoccola” si riferisca direttamente alla professione; tuttavia, a differenza di M., ritiene che questo sia un’aggravante e non un’attenuante. Il mestiere della prostituta è culturalmente e storicamente considerato il più degradante in assoluto, oltre che esclusivamente femminile. La prostituta è la feccia della società, ed è una donna: ecco perché l’insulto più grave che una mente umana – maschile o femminile – riesca a concepire sia proprio “prostituta” (declinato nelle sue varie volgarizzazioni).

3. L’ultima posizione è la mia. Dopo aver precisato che “zoccola” deriva da “sorcio” e nell’uso popolare ha assunto il significato non di “prostituta” bensì di “donna che gode del sesso con plurimi uomini” (distinzione importante, per quanto mi riguarda), sono stata completamente smontata da C., che considerava la mia puntualizzazione non pertinente. Egli sostiene infatti che:

Zoccola non significa scrofa né sorcia, nell’italiano standard, in quanto utilizzo.
L’uomo non voleva dare a *** della sorcia, ma della prostituta, secondo me, relativamente all’estensione che fanno del termine e quindi alla sua valenza come insulto.
Puntualizzare che “zoccola” non indica la professione era secondo me sbagliatissimo, e se dovessi mai difenderti da un maschilista ti consiglio di NON farlo.

Ho avuto modo di confrontarmi con lui in seguito. La conversazione è stata interessante: sono arrivata a una conclusione che non corrisponde all’idea che avevo all’inizio. Ho ragionato, insieme a C., sul termine “zoccola” e il suo significato contestualmente all’utilizzo generale. Ecco cosa ho realizzato.

“Zoccola” non significa prostituta, come dice C. Può essere considerato uno dei tantissimi sinonimi volgari di meretrice, cortigiana o escort: il mestiere con più nomi al mondo che di fatto significa una sola cosa, ovvero ricevere soldi in seguito a un rapporto sessuale. Nell’uso comune, tuttavia, questi termini considerati estremamente offensivi vanno a descrivere un altro tipo di comportamento: ricercare il sesso, possibilmente con diverse persone, per puro godimento personale. Io sono convinta che l’uomo che ha insultato la mia amica non intendesse dire “sei una donna che per lavoro ha rapporti sessuali con sconosciuti” ma piuttosto “non sai guidare perché sei buona soltanto a scopare”.
La cosa è incredibilmente più offensiva rispetto a quello che pensavo. Per due motivi: 1) l’offesa più grave in assoluto significa “donna che fa sesso e lo fa felicemente”, attitudine che non dovrebbe assolutamente essere considerata negativa, figuriamoci come la più degradante che esista al mondo. 2) l’insulto in questione, che riguarda prettamente le scelte sessuali, viene applicato indistintamente a tutti i campi (anche quelli che con la sfera sessuale non c’entrano niente).
Ora, è vero che il linguaggio talvolta necessiti di tempi più lunghi per adattarsi ai cambiamenti culturali in atto nella società. È vero anche che forzare l’abolizione di alcuni termini senza che la popolazione abbia ancora modificato forma mentis non sia un’idea ottimale. Non sono qui per portare avanti una rivoluzione linguistica per proibire il termine “puttana” sostituendolo con insulti più polically correct. Al contrario, intendo continuare a interrogarmi su come la sessualità femminile venga ancora demonizzata, nascosta, utilizzata come insulto, considerata volgare e respinta in toto. La facilità con cui si parla di “troie” e “puttane” è disarmante. Tutte noi potremmo esserlo: ci basta curare il nostro aspetto, ricorrere alla chirurgia plastica, fare sesso, indossare vestiti aderenti, comprare reggiseni imbottiti, fare la dieta, andare a ballare, ricoprire una posizione lavorativa di prestigio, entrare in politica, commettere un errore, trattare male qualcuno, infrangere una regola, denunciare un reato, lasciare il nostro partner, rifiutare delle avances, essere insegnanti, fare carriera, avere tanti amici maschi oppure sbagliare una manovra in macchina. Questi e altri mille motivi potrebbero renderci “puttane” agli occhi di qualcuno.

Come già dissi in passato, credo che una rivoluzione serva eccome. Non linguistica ma culturale. Il primo passo è non scegliere mai più un insulto sessualizzato per offendere qualcuna, né tollerarne l’utilizzo da parte di altre/i.

Buon proseguimento.

“Non ti curar di loro”. E INVECE FALLO

“Non ti curar di loro”. E INVECE FALLO

C’è un verso dantesco, uno dei più celebri e citati, che dice così: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Il sommo poeta si riferisce agli ignavi dell’inferno; nell’uso comune, tuttavia, la frase significa in poche parole “non curarti di queste persone, lascia correre”.

È un concetto che mi viene ripetuto più o meno da quando avevo 6 anni. Sono cresciuta con questo dogma: se qualcuno ti dà fastidio, ignoralo. Se qualcuno è meschino con te, allontanati e non rivolgergli più la parola. Per tutta la vita ho pensato che fosse proprio questa la formula segreta per la felicità. Fottersene delle persone sgradevoli e giudicanti, quelle che ti fanno sentire emarginato e a disagio con te stesso. Bé, sto scrivendo questo articolo perché ho cambiato radicalmente idea.

Ecco alcune situazioni in cui mi è stato dato il sopracitato inutile consiglio:
– quando alle elementari venivo esclusa dal gruppo
– quando al campo estivo scoprii che alcune bambine mi prendevano in giro
– quando durante le superiori si diffusero voci false e infamanti su di me
– quando ero in bici e cinque persone mi urlarono insulti dietro
– ogni volta che ho ricevuto attenzioni insistenti non richieste
In queste (e altre) circostanze la prima cosa che mi venne detta fu “ignorali, lascia perdere, non pensarci”.
Ogni. Singola. Volta.

È chiaro che stiamo parlando di questioni non particolarmente gravi. Non sono qui a lamentarmi delle bambine cattivelle delle elementari, ci mancherebbe. Per molto tempo io stessa ho ritenuto opportuno provare a ignorare determinati individui.
Imparare a fregarmene. La bella utopia che si ripeteva sempre la ragazzina cicciottella con problemi relazionali che ero io non troppissimi anni fa. Ha mai funzionato? No. Ma non sono qui nemmeno per questo.
Sto scrivendo questo articolo perché non solo non sono mai riuscita a ignorare chi mi fece star male e chi mi mise in imbarazzo davanti al gruppo; ma anche se avessi avuto successo in questo – e non è il mio caso – avrei forse attenuato il sintomo ma non il problema reale. Un po’ come se avessi provato a curare la varicella con la crema per i brufoli.
Una persona che vive noncurante di tutti è probabilmente più felice di chi invece registra ogni occhiataccia, ogni risatina, ogni singolo commento dall’infanzia all’età adulta. Questo è un fatto che non posso negare. MA NON È LA VITTIMA CHE DEVE MODIFICARE IL SUO ATTEGGIAMENTO RISPETTO AGLI ALTRI.

Mi spiego meglio. Per farlo, devo precisare che non ci sono persone discriminate e persone discriminanti. Un discriminato può discriminare a sua volta, e anche il peggior stronzo può essere discriminato. Tenetelo a mente: questo servirà dopo.

Dicevo che fregarsene, di fatto, rende più felici. Se non me la fossi presa per ogni singolo torto subito probabilmente la qualità della mia vita sarebbe più alta. Ho sempre pensato che questo fosse un atteggiamento positivo, il lasciarmi scivolare le cose addosso. Ora invece lo reputo non solo inutile, ma controproducente e dannoso per la società. I motivi principali credo siano (almeno) due:
1) non tutti ce la fanno, di fatto. Alcune persone sono più sensibili di altre e ci rimarranno sempre male, anche se “non ha senso” e “non dovrebbero prendersela così tanto” (frasi abusate che sento dall’infanzia). Non sono loro ad essere sbagliate.
2) l’attenzione è al solito (AL SOLITO!) concentrata su chi subisce. Come per le molestie a sfondo sessuale o qualsiasi altro comportamento che vede una parte che esercita un’azione insistente e sgradevole e un’altra che la patisce. Cosa dovrebbe fare la “vittima”? Qual è il modo migliore per evitare queste situazioni? Come togliersi il più in fretta possibile dal pericolo? Come si dovrebbe reagire? A meno che non abbia compiuto un reato, come nel caso gravissimo dello stupro, generalmente ben poche parole vengono spese su ciò che NON avrebbe dovuto fare il colpevole in primo luogo.

Smettiamola di consigliare a chi viene discriminato, qualunque sia il motivo, di non prendersela. Io ho passato i primi 23 anni della mia vita a provarci con tutte le mie forze, solo per arrivare alla conclusione che non ci riesco. Ma come si fa allora a cambiare la società?
Un modo c’è: non discriminando. Come vi ho più o meno accennato un paragrafo fa, tutti quanti – direttamente o indirettamente, coscienti o incoscienti – esercitiamo discriminazioni. Ecco qualche esempio di discriminazione accidentale:
– la volta che sentii una persona, tra l’altro attivissima in ambito di volontariato e inclusione delle minoranze discriminate, dire che i grassi non dovrebbero indossare gli shorts perché non stanno affatto bene e che se lei fosse nei loro panni (NON LO È) si metterebbe gonne lunghe tutto il tempo
– quando, vedendo arrivare uno che mi stava antipatico, commentai ad alta voce il suo abbigliamento sciatto
– quando le persone con cui ero uscita appellarono come “troia” una ragazza estroversa, vestita aderente e con molti amici maschi E IO RIMASI IN SILENZIO
– quando da adolescente giudicai male una mia amica per la sua decisione di fare sesso con due persone diverse lo stesso giorno
– tutte le volte che ho involontariamente fatto sentire qualcuno escluso e rifiutato

Le discriminazioni, dalle più gravi a quelle apparentemente insignificanti, si combattono in attivo, cioè NON ESERCITANDOLE. Il victim blaming non serve a niente, non risolve il problema alla radice ma anzi legittima e giustifica i comportamenti discriminanti. Siete presi di mira? Piuttosto lagnatevi tutto il tempo ma non fate per nessuna ragione al mondo finta di niente.

Il problema non è reagire male alle discriminazioni, non riuscire a “fregarsene di ciò che pensa la gente” (altra frase abusatissima e priva di senso). L’unico problema, l’unico e il solo, è la discriminazione in sé: è questa che dobbiamo combattere.
Tutto il resto non conta.

(In foto: Rachel Earl di “My Mad Fat Diary”)