La carezza di Genet

La carezza di Genet

La vicenda la conosciamo tutti: all’alba del 24 agosto 2017 la polizia si presenta in Piazza Indipendenza a Roma per sgomberare i molti rifugiati, principalmente eritrei ed etiopi, accampati in strada. L’acqua gelida degli idranti sveglia le donne, gli uomini, gli anziani e i pochi bambini che sono costretti a scappare, ancora con il sonno negli occhi, senza aver realizzato bene quello che sta succedendo. A quelle tante famiglie, adesso, non rimane più nulla, nemmeno la strada. E tra i commenti aberranti dei neofascisti e le frasi shock di un funzionario di polizia (“spaccategli un braccio, devono sparire”) l’emergenza umanitaria è diventata, nel giro di due giorni, ben più di un trend su Twitter. Ad aver turbato gli animi di molti è l’immagine di una donna eritrea di 40 anni fotografata in lacrime mentre una guardia le tiene il volto tra le mani.

Genet di fatto è comparsa, senza alcun tipo di riguardo, su tutte le prime pagine italiane. Superfluo sarebbe parlare di consenso e legittimità della pubblicazione: senza poterlo decidere, da essere umano letteralmente invisibile la donna si è ritrovata ad essere famosa come una superstar. Vuoi per clickbating, vuoi per la volontà dei media di presentare al pubblico l’ennesima storia strappalacrime, vuoi per un tentativo maldestro di addolcire un’azione di violenza ingiustificata verso persone inermi. In ogni caso, Genet è stata sbattuta su tutti i giornali. E a ottenere la massima visibilità non sono state le sue parole, la sua storia o la sua rabbia, ma la carezza non richiesta di un uomo bianco. Un poliziotto che ha preso parte proprio a quell’azione che le ha tolto tutto, anche se le rimaneva poco. Pure la strada, già. D’altronde lei ce lo dice, di non vedere il bello in quell’immagine. “Ci buttate via come una scarpa rotta”. E se lei stessa non ha colto alcuna bontà in quel gesto, perché dovremmo farlo noi?

Io il bello, nell’immagine, non lo vedo. Non intendo scadere in considerazioni semplicistiche e unilaterali sulle forze dell’ordine: anche ammettendo (seppur a fatica) le buone intenzioni del poliziotto, non vedo niente che mi possa commuovere. Al contrario, vedo lo sfregio verso una donna che ha perso tutto. Anche se involontario, per quanto mi riguarda, rimane tale. Non si tratta di un fiorellino che sboccia tra i rifiuti, qualcosa di raro, bello ed effimero in mezzo allo scempio. O il santo martire che perdona i suoi carnefici, o la conversione di San Paolo. No, in questo caso l’esistenza stessa del gesto compassionevole dell’uomo è resa possibile dalla precedente oppressione. Cosa c’è di buono in questo? Cosa dovremmo celebrare? Forse chi ci butta in mezzo alla strada con il sorriso? O chi ci priva di ogni speranza rimasta con un bel buffetto sulla testa? Questo la renderebbe meno oppressione di quello che è?
E dov’è la dignità di Genet, la protagonista della notizia virale, il volto che tutti noi ora conosciamo così bene? Lei cosa ci ha guadagnato, esattamente, da tutta questa storia? Non ha avuto nemmeno la possibilità di dar voce al suo popolo, o di aprire uno spiraglio verso una maggiore consapevolezza sulla questione migranti, o in generale di avere una scelta. No, Genet è diventata il mezzo per riscattare quell’uomo che, asciugandole le lacrime sul viso, è quasi celebrato come un mezzo eroe. Costretto alla violenza da cause superiori ma umano e magnanimo, come Napoleone ad Eylau.

L’uomo bianco si è lavato la coscienza ancora una volta.

Siamo tutte zoccole

Siamo tutte zoccole

Un paio di giorni fa una mia carissima amica sbagliò una manovra mentre guidava. Tentò di girare a sinistra dal viale. Stava passando un signore in macchina, forse una di quelle persone che si veste bene per andare a lavoro e rincasa tardi salutando i figli con un buffetto sulla testa. Ha rallentato, il distinto signore; si è affacciato dal finestrino e ha urlato “zoccola”.

La mia amica è rimasta turbata. “Zoccola” non è un termine che tende a scivolare addosso senza fatica, si sa. Ha deciso di scrivere un post su Facebook per denunciare l’accaduto. Lo riporto:

Io, solo in qualità di donna mentre sono in macchina devo sentirmi urlare dal finestrino “zoccola” per una manovra sbagliata. Non un insulto qualunque, non “incapace”, non “ma cosa stai facendo”. No, l’insulto più appropriato secondo certe persone è “zoccola”. Ci fosse stato mio padre alla guida avrebbe ricevuto lo stesso trattamento? Sarebbe stato ferito in egual misura? Io non credo proprio.
PARITÀ DI GENERE, questa sconosciuta soprattutto nelle situazioni quotidiane, nelle situazioni comuni. C’è ancora tanto lavoro da fare.

Vi ho raccontato questo episodio in quanto premessa necessaria per introdurre la vera riflessione che mi ha spinta a scrivere questo articolo, ovvero l’utilizzo di termini che alludono, nel senso più strettamente letterale, al mestiere della “prostituta”. Pare proprio, infatti, che per la stragrande maggioranza delle persone che si trovano a dover denigrare una donna, sia molto difficile elaborare qualcosa che sia peggio di “troia”, “puttana”, “zoccola” ecc.
Sono insulti particolari, questi. Speciali. Perché sono insulti che tirano in ballo la sfera sessuale delle donne anche quando questa non c’entra assolutamente nulla. La professoressa mi ha bocciato? Che troia. Quella signora mi ha tagliato la strada? Sta puttana. La ragazza sbaglia la manovra? Zoccola.

Sotto lo status sopracitato, quello della mia amica, è esplosa una discussione che ha riguardato proprio l’impiego smodato di termini analoghi e il loro valore discriminante. Dopo un lungo scambio di vedute, non sempre pacifico (mea culpa), e tantissime puntualizzazioni riguardanti l’etimologia del termine rapportata al suo utilizzo attuale, sono infine emerse tre posizioni fondamentali:

1. M. scrive: “Stronza è peggio di zoccola però è meno discriminatorio”. Secondo lui, infatti, insulti unisex come “stronzo/a” andrebbero a intaccare le capacità della persona se non la sua vera essenza, mentre termini sessualizzati come “puttana” descriverebbero, seppur in maniera volgare, un mestiere. Infatti M. dice che “zoccola” “indica una professione, e le professioni di per sé non sono un insulto. Mentre Stronza intende proprio dire che sei Stronza”. Per M., comunque, i suddetti termini vengono spesso pronunciati con tono offensivo sebbene tecnicamente non lo siano. Non nega, quindi, che siano insulti gravi: sostiene però che non siano tra i più gravi in assoluto, anche se vengono rivolti esclusivamente alle donne.

2. C. ha una posizione molto diversa. Anche lui asserisce che un insulto come “zoccola” si riferisca direttamente alla professione; tuttavia, a differenza di M., ritiene che questo sia un’aggravante e non un’attenuante. Il mestiere della prostituta è culturalmente e storicamente considerato il più degradante in assoluto, oltre che esclusivamente femminile. La prostituta è la feccia della società, ed è una donna: ecco perché l’insulto più grave che una mente umana – maschile o femminile – riesca a concepire sia proprio “prostituta” (declinato nelle sue varie volgarizzazioni).

3. L’ultima posizione è la mia. Dopo aver precisato che “zoccola” deriva da “sorcio” e nell’uso popolare ha assunto il significato non di “prostituta” bensì di “donna che gode del sesso con plurimi uomini” (distinzione importante, per quanto mi riguarda), sono stata completamente smontata da C., che considerava la mia puntualizzazione non pertinente. Egli sostiene infatti che:

Zoccola non significa scrofa né sorcia, nell’italiano standard, in quanto utilizzo.
L’uomo non voleva dare a *** della sorcia, ma della prostituta, secondo me, relativamente all’estensione che fanno del termine e quindi alla sua valenza come insulto.
Puntualizzare che “zoccola” non indica la professione era secondo me sbagliatissimo, e se dovessi mai difenderti da un maschilista ti consiglio di NON farlo.

Ho avuto modo di confrontarmi con lui in seguito. La conversazione è stata interessante: sono arrivata a una conclusione che non corrisponde all’idea che avevo all’inizio. Ho ragionato, insieme a C., sul termine “zoccola” e il suo significato contestualmente all’utilizzo generale. Ecco cosa ho realizzato.

“Zoccola” non significa prostituta, come dice C. Può essere considerato uno dei tantissimi sinonimi volgari di meretrice, cortigiana o escort: il mestiere con più nomi al mondo che di fatto significa una sola cosa, ovvero ricevere soldi in seguito a un rapporto sessuale. Nell’uso comune, tuttavia, questi termini considerati estremamente offensivi vanno a descrivere un altro tipo di comportamento: ricercare il sesso, possibilmente con diverse persone, per puro godimento personale. Io sono convinta che l’uomo che ha insultato la mia amica non intendesse dire “sei una donna che per lavoro ha rapporti sessuali con sconosciuti” ma piuttosto “non sai guidare perché sei buona soltanto a scopare”.
La cosa è incredibilmente più offensiva rispetto a quello che pensavo. Per due motivi: 1) l’offesa più grave in assoluto significa “donna che fa sesso e lo fa felicemente”, attitudine che non dovrebbe assolutamente essere considerata negativa, figuriamoci come la più degradante che esista al mondo. 2) l’insulto in questione, che riguarda prettamente le scelte sessuali, viene applicato indistintamente a tutti i campi (anche quelli che con la sfera sessuale non c’entrano niente).
Ora, è vero che il linguaggio talvolta necessiti di tempi più lunghi per adattarsi ai cambiamenti culturali in atto nella società. È vero anche che forzare l’abolizione di alcuni termini senza che la popolazione abbia ancora modificato forma mentis non sia un’idea ottimale. Non sono qui per portare avanti una rivoluzione linguistica per proibire il termine “puttana” sostituendolo con insulti più polically correct. Al contrario, intendo continuare a interrogarmi su come la sessualità femminile venga ancora demonizzata, nascosta, utilizzata come insulto, considerata volgare e respinta in toto. La facilità con cui si parla di “troie” e “puttane” è disarmante. Tutte noi potremmo esserlo: ci basta curare il nostro aspetto, ricorrere alla chirurgia plastica, fare sesso, indossare vestiti aderenti, comprare reggiseni imbottiti, fare la dieta, andare a ballare, ricoprire una posizione lavorativa di prestigio, entrare in politica, commettere un errore, trattare male qualcuno, infrangere una regola, denunciare un reato, lasciare il nostro partner, rifiutare delle avances, essere insegnanti, fare carriera, avere tanti amici maschi oppure sbagliare una manovra in macchina. Questi e altri mille motivi potrebbero renderci “puttane” agli occhi di qualcuno.

Come già dissi in passato, credo che una rivoluzione serva eccome. Non linguistica ma culturale. Il primo passo è non scegliere mai più un insulto sessualizzato per offendere qualcuna, né tollerarne l’utilizzo da parte di altre/i.

Buon proseguimento.

“Non ti curar di loro”. E INVECE FALLO

“Non ti curar di loro”. E INVECE FALLO

C’è un verso dantesco, uno dei più celebri e citati, che dice così: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Il sommo poeta si riferisce agli ignavi dell’inferno; nell’uso comune, tuttavia, la frase significa in poche parole “non curarti di queste persone, lascia correre”.

È un concetto che mi viene ripetuto più o meno da quando avevo 6 anni. Sono cresciuta con questo dogma: se qualcuno ti dà fastidio, ignoralo. Se qualcuno è meschino con te, allontanati e non rivolgergli più la parola. Per tutta la vita ho pensato che fosse proprio questa la formula segreta per la felicità. Fottersene delle persone sgradevoli e giudicanti, quelle che ti fanno sentire emarginato e a disagio con te stesso. Bé, sto scrivendo questo articolo perché ho cambiato radicalmente idea.

Ecco alcune situazioni in cui mi è stato dato il sopracitato inutile consiglio:
– quando alle elementari venivo esclusa dal gruppo
– quando al campo estivo scoprii che alcune bambine mi prendevano in giro
– quando durante le superiori si diffusero voci false e infamanti su di me
– quando ero in bici e cinque persone mi urlarono insulti dietro
– ogni volta che ho ricevuto attenzioni insistenti non richieste
In queste (e altre) circostanze la prima cosa che mi venne detta fu “ignorali, lascia perdere, non pensarci”.
Ogni. Singola. Volta.

È chiaro che stiamo parlando di questioni non particolarmente gravi. Non sono qui a lamentarmi delle bambine cattivelle delle elementari, ci mancherebbe. Per molto tempo io stessa ho ritenuto opportuno provare a ignorare determinati individui.
Imparare a fregarmene. La bella utopia che si ripeteva sempre la ragazzina cicciottella con problemi relazionali che ero io non troppissimi anni fa. Ha mai funzionato? No. Ma non sono qui nemmeno per questo.
Sto scrivendo questo articolo perché non solo non sono mai riuscita a ignorare chi mi fece star male e chi mi mise in imbarazzo davanti al gruppo; ma anche se avessi avuto successo in questo – e non è il mio caso – avrei forse attenuato il sintomo ma non il problema reale. Un po’ come se avessi provato a curare la varicella con la crema per i brufoli.
Una persona che vive noncurante di tutti è probabilmente più felice di chi invece registra ogni occhiataccia, ogni risatina, ogni singolo commento dall’infanzia all’età adulta. Questo è un fatto che non posso negare. MA NON È LA VITTIMA CHE DEVE MODIFICARE IL SUO ATTEGGIAMENTO RISPETTO AGLI ALTRI.

Mi spiego meglio. Per farlo, devo precisare che non ci sono persone discriminate e persone discriminanti. Un discriminato può discriminare a sua volta, e anche il peggior stronzo può essere discriminato. Tenetelo a mente: questo servirà dopo.

Dicevo che fregarsene, di fatto, rende più felici. Se non me la fossi presa per ogni singolo torto subito probabilmente la qualità della mia vita sarebbe più alta. Ho sempre pensato che questo fosse un atteggiamento positivo, il lasciarmi scivolare le cose addosso. Ora invece lo reputo non solo inutile, ma controproducente e dannoso per la società. I motivi principali credo siano (almeno) due:
1) non tutti ce la fanno, di fatto. Alcune persone sono più sensibili di altre e ci rimarranno sempre male, anche se “non ha senso” e “non dovrebbero prendersela così tanto” (frasi abusate che sento dall’infanzia). Non sono loro ad essere sbagliate.
2) l’attenzione è al solito (AL SOLITO!) concentrata su chi subisce. Come per le molestie a sfondo sessuale o qualsiasi altro comportamento che vede una parte che esercita un’azione insistente e sgradevole e un’altra che la patisce. Cosa dovrebbe fare la “vittima”? Qual è il modo migliore per evitare queste situazioni? Come togliersi il più in fretta possibile dal pericolo? Come si dovrebbe reagire? A meno che non abbia compiuto un reato, come nel caso gravissimo dello stupro, generalmente ben poche parole vengono spese su ciò che NON avrebbe dovuto fare il colpevole in primo luogo.

Smettiamola di consigliare a chi viene discriminato, qualunque sia il motivo, di non prendersela. Io ho passato i primi 23 anni della mia vita a provarci con tutte le mie forze, solo per arrivare alla conclusione che non ci riesco. Ma come si fa allora a cambiare la società?
Un modo c’è: non discriminando. Come vi ho più o meno accennato un paragrafo fa, tutti quanti – direttamente o indirettamente, coscienti o incoscienti – esercitiamo discriminazioni. Ecco qualche esempio di discriminazione accidentale:
– la volta che sentii una persona, tra l’altro attivissima in ambito di volontariato e inclusione delle minoranze discriminate, dire che i grassi non dovrebbero indossare gli shorts perché non stanno affatto bene e che se lei fosse nei loro panni (NON LO È) si metterebbe gonne lunghe tutto il tempo
– quando, vedendo arrivare uno che mi stava antipatico, commentai ad alta voce il suo abbigliamento sciatto
– quando le persone con cui ero uscita appellarono come “troia” una ragazza estroversa, vestita aderente e con molti amici maschi E IO RIMASI IN SILENZIO
– quando da adolescente giudicai male una mia amica per la sua decisione di fare sesso con due persone diverse lo stesso giorno
– tutte le volte che ho involontariamente fatto sentire qualcuno escluso e rifiutato

Le discriminazioni, dalle più gravi a quelle apparentemente insignificanti, si combattono in attivo, cioè NON ESERCITANDOLE. Il victim blaming non serve a niente, non risolve il problema alla radice ma anzi legittima e giustifica i comportamenti discriminanti. Siete presi di mira? Piuttosto lagnatevi tutto il tempo ma non fate per nessuna ragione al mondo finta di niente.

Il problema non è reagire male alle discriminazioni, non riuscire a “fregarsene di ciò che pensa la gente” (altra frase abusatissima e priva di senso). L’unico problema, l’unico e il solo, è la discriminazione in sé: è questa che dobbiamo combattere.
Tutto il resto non conta.

(In foto: Rachel Earl di “My Mad Fat Diary”)

Considerazioni su una società grassofobica

Considerazioni su una società grassofobica

Diciamoci la verità: parlare di grassofobia senza essere accusata di politically correct, di voler proporre modelli sbagliati e malsani e di invidiare le “magre” è praticamente impossibile. Tuttavia voglio provarci comunque. E per dimostrare che la nostra è una società grassofobica – che porta inevitabilmente all’esclusione e alla mancata rappresentazione dei “grassi” – non ho trovato modo migliore di riportare alcuni degli interventi facilmente riscontrabili sul social network più famoso.
(Li trovate alla fine dell’articolo*)

La scelta di Facebook è motivata da due fattori. Si tratta, innanzitutto, di un mezzo “democratico” che permette a tutti gli utenti di esprimersi in modo quasi incensurato. Ciò non toglie – e questa è un’opinione impopolare – che le cose scritte su Facebook abbiano lo stesso identico valore di quelle pronunciate ad alta voce. In tal senso i commenti sui social possono essere addirittura più indicativi rispetto alle chiacchiere origliate al bar (che, per la cronaca, non scherzano affatto: giusto un paio di giorni fa sentivo un uomo parlare del suo sogno di “gambizzare le femministe”). Un utente medio di Facebook è portato a esternare la sua opinione senza filtro alcuno.
La seconda ragione è facilmente deducibile: Facebook rende possibile una ricerca rapida e accessibile a tutti. Ognuno di voi potrà verificare nel modo più immediato la veridicità del fenomeno che intendo documentare.

Dopo aver effettuato questa breve indagine mi è stato possibile fare le seguenti considerazioni, tenendo sempre conto della limitatissima portata del campione analizzato (e dei miei metodi, come dire, non propriamente professionali):

  • Tutti i commenti presi in esame (molti più di quelli che sono stata in grado di riportare) si riferivano ad articoli di diversi blog o quotidiani online che trattavano l’argomento “modelle di taglie forti”.
  • Tutti gli articoli scelti parlavano di body positivity e accettazione di sé; nessuno di essi esaltava patologie come l’obesità. Alcuni titoli:
    – Modella plus size ispira una Barbie Curvy
    – Modella plus size per pubblicizzare il nuovo reggiseno Nike
    – Depressa per colpa dei bulli, diventa una modella plus size
    – Ashley Graham, da modella plus size a donna dell’anno
    – Modella plus size criticata ferocemente ma lei risponde a tono
    – Modella plus size mostra le sue smagliature su Instagram
  • La stragrande maggioranza dei commenti (sul serio, quasi tutti) manifestavano preoccupazione per la salute delle modelle (definite malate, gravemente obese, in pericolo di vita) o, più in generale, per la diffusione di prototipi “malsani”.
  • Una buona parte dei commenti conteneva insulti o considerazioni sulla bruttezza e la disarmonia dei corpi in questione.
  • La maggior parte dei commenti era stato scritto da donne.
  • Quasi tutti i (pochi) commenti a difesa della scelta di modelle plus size additavano la preferenza a criteri esclusivamente estetici sostenendo che “la carne è bella” e “le ossa fanno schifo”, esercitando di fatto thin shaming.

A questo punto potrei anche chiudere tutto, farmi una camomilla e andare a dormire. Ma visto che ci siamo, credo dedicherò un altro elenco puntato (ho rotto le scatole, lo so) alle mie personalissime osservazioni:
– Nessuno, nemmeno un medico, ha la capacità di stabilire lo stato di salute di una persona guardando una foto. Inoltre, a condurre uno stile di vita dannoso non ci sono solo i “grassi” ma anche persone normopeso di cui nessuno si permetterà mai di presupporre abitudini e scelte alimentari in base a ciò che vede.
– I “grassi” di tutte le età sono costretti a subire offese (velate o meno), battute anche molto pesanti, discriminazioni di vario tipo. Che non ha proprio senso, perché dire a una persona sovrappeso che “aveva solo da non mangiare” sarebbe come dire a un malato di cancro ai polmoni che “aveva solo da non fumare” o a un depresso che “non dovrebbe essere triste”. Questa grassofobia costante viene oltremodo alimentata dall’assenza di rappresentazioni di persone “grasse” che non siano caricature o personaggi stereotipati (come il ciccione simpatico dei telefilm). In quest’area, lentamente, pare stia cambiando qualcosa; l’opinione popolare continua tuttavia a esprimersi con toni fortemente contrariati, come a voler preservare a tutti i costi la stigmatizzazione sociale dei “grassi”.
– Ho riscontrato anche tantissime discriminazioni verso i “magri”. Frasi come “le ossa ai cani”, “le vere donne hanno le curve” o “meglio avere qualcosa da toccare” non solo non aiutano la causa curvy ma manifestano in modo piuttosto chiaro la mancata comprensione del concetto.
– Ciò a cui tanti auspicano non è la sostituzione delle modelle “magre” con altrettante modelle considerate “sovrappeso” o talvolta “obese”. Questa è una convinzione errata che sembra tuttavia essere molto comune. Il mio sogno utopico è che possano essere rappresentati tutti i corpi, tutte le forme, tutte le persone. Io, che sono nata con un corpo che anche al suo peso ideale non sarebbe filiforme ma nemmeno corrisponderebbe al modello curvy, spero un giorno di vedere celebrata anche la mia, di conformazione fisica.

In pochissime parole: nessuno difenderà mai l’obesità come patologia. Molti, spero moltissimi, si schiereranno però con gli esseri umani e sosterranno il diritto di ogni individuo di sentirsi a proprio agio, identificarsi in modelli simili, sentirsi libero di indossare quello che vuole ed essere accettato alla pari di tutti gli altri. Anche se non in perfetta salute.

Sarò ingenua io, ma è una cosa alla quale non smetterò mai di credere.

(In foto: Tess Holliday, modella plus size)

*Alcuni dei risultati trovati digitando “modella plus size” su Facebook:

Non proprio un belvedere. Sembra che molte però si consolino molto a vedere questo genere di esempi. Così possono continuare a strafogarsi senza sensi di colpa.
(Donna su Vogue Italia)

Io non la critico dico solo che potrebbe evitare di farsi fotografare …perche è veramente brutta con quelle gambe!!!!!!!!
(Donna su Vogue Italia)

Che schifo da vomito schifosi lardose sembra un elefante
(Donna su Vogue Italia)

Gay,obesi ,femministe ..tutte persone che si autorinchiudono in un ghetto da sole,perché non apprezzate dagli pseudo normali..fregarsene?
(Donna su Corriere della sera)

ma se è un cesso….che abbia il buon senso di nascondersi che fa schifo…poi con questo caldo…
(Uomo su Blogo)

Per me è una cicciona esibizionista e il sovrappeso non va bene è cunque un PROBLEMA alimentare da curare
(Uomo su Blogo)

Bello schifo dire che questa con 100 kg in più non arriva ai 40 no è? ??
(Donna su IODONNA)

Non si puo’vedere che schifo
(Donna su IODONNA)

Le critiche le cerca lei solo per farsi pubblicità. Una donna obesa che vuole fare la fotomodella sicuramente ha qualche problema, a parte se è carina o no . Far passare la gente per cattiva non è giusto ognuno esprime il suo parere!!!!
(Donna su Il Gazzettino)

Se questa scoreggia in un sacco di farina nevica per un mese intero
(Uomo su Il Gazzettino)

Dal “dizionario italiano”: modello/a =Termine di riferimento ritenuto valido come esempio o prototipo e “degno d’imitazione”; SINONIMI = esemplare, campione:
un modello da imitare; prendere a modello qualcuno/a…..
La vita è sua ed è libera di essere felice come meglio crede, ma rimane sempre molto lontana dal modello da imitare….
(Uomo su Il Mattino)

bambolona il problema e la tua salute non credo che potrai essere sana in queste condizioni
(Donna su Il Mattino)

Non mi ripeto. Posso solo aggiungere che oltre a essere quello che si vede,è anche in posa volgare. Ditemi la verità,quanti uomini la sposerebbero’ ?
(Donna su Il Mattino)

Niente da dire sul fatto che uno sia obeso,ma perche’ dovrebbe atteggiarsi a modello?Chi te lo fa fare di esporre certa mercanzia?Te li attiri i cancheri che ti mandano 😀
(Uomo su Il Mattino)

UNA COSA É LA DONNA FORMOSA,E UN’ALTRA LA DONNA GRASSA!QUESTO FINTO BUONISMO METTETEVELO NEL DIDIETRO SCOMMETTO CHE SIETE I PRIMI CHE APPENA VEDETE UNA COSI LA CONDANNATE A MORIRE! LE CURVE SONO BELLE DA VEDERE IL GRASSO NO.
(Donna su Il Mattino)

Sembra un materasso con i bottoni, insomma la normalita’ del peso forma con 3 4 kg su o giu’ non fa notizia, vorrei vederla correre quanto le si affaticherebbe il cuore, smettetela di creare miti assurdi chi mangia troppo nasconde altri bisogni così come chi mangia troppo poco, a forza di vendere abiti questo l’ho capito 😉
(Donna su Corriere della Sera)

Questa è un boiler, non scherziamo su qualche chilo di troppo contro cisterne di lardo. Il grasso era ” sano” quando erano piccoli i nostri nonni, significava che si era ricchi o quantomeno benestanti da potersi permettere di mangiare. Il resto erano smilzi, anche per il lavoro ( parlo di contadini e artigiani). Cose simili sono non sono stereotipi, sono persone malate seriamente. E basta pure con sto curvy perché dovrebbe esserci un limite di peso sul quale basarsi.
(Donna su Corriere della Sera)

Chissà quante delle signore che dicono “vergognatevi a criticarla”, pensano lo stesso quando sono in spiaggia e vedono dal vivo le cosiddette “curvy”
(Donna su alFemminile.com)

Curvy? Direi palla di lardo..
(Donna su alFemminile.com)

Ma una che sia sana no ?!?! Né anoressiche né evidentemente sovrappeso potranno mai essere modelli da seguire…
(Donna su alFemminile.com)

EVVIVA !!!! Finalmente una bellezza vera, non una tristissima anoressica!
(Donna su alFemminile.com)

se viene a casa mia le offro un bel pezzo di parmigiana..poi me la scopo
(Uomo su Il Fatto Quotidiano)

Ma fatela finita !!!!! Passate da un eccesso all’altro !!! Questa donna è obesa , punto !!! Poi se voi chiattone continuate a definirvi “curvy” per il semplice gusto di non guardare la realtà in faccia , beh’ è triste !!! Guardate in faccia la realtà !!!
(Donna su Cosmopolitan Italia)

Curvy un par di palle!è una donna in evidente sovrappeso, quasi obesa oserei dire!basta propinarci ste donne grasse,avete scassato la minchia!
(Uomo su Direttanews.it)

Evviva le donne in carne !!! Almeno quando ti abbracciano ” le senti” sono avvolgenti , rassicuranti altro che quei manici di scopa che ci rifila la pubblicita’.ma poi mi sono sempre chiesta, dato che la vita e ‘ una, se valesse la pena privarsi del piacere di mangiare tanto per dire una bella pizza e per cosa ? Per qualche chilo in meno? E poi le secche sono tristi..o no?
(Amalia su Direttanews.it)

Rimane comunque una balena, chiatta, con la pancia molle e cadente e che per passare deve far allargare le porte! ma hanno dovuto usare il Grand’angolo per farti le foto? 😀 😀 😀
(Donna su Direttanews.it)

Un conto è una persona con qualche chilo in più ma che segue un’alimentazione sana, fa movimento e ama il suo corpo. Un conto è questo, la cellulite e le smagliature (a meno che una donna sia stata incinta) sono sinonimo di cattiva alimentazione e un inesistente attività fisica, quindi quoto Garao Garau, mi sembra abbastanza sbagliato questo genere di “pubblicità”
(Donna su D – La Repubblica)

Io la trovo invece bellissima, alla faccia delle stecche da bigliardo che non hanno niente di salutare!
(Donna su Il Mattino)

rendere più attraente l’idea anglicizzando il nome? secondo qualche intellettuale, un corpo sproporzionato diventa equilibrato ed attraente se lo chiami con un nome inglese e glamour…
(Uomo su Il Fatto Quotidiano)

Perché cercare di giustificare le donne oggettivamente grasse? Essere grassi non è un handicap, ma solo una scelta, è giusto che la moda segua chi ha un fisico migliore (sbagliato allo stesso modo portare una donna all’anoressia per avere taglie da bambina)
(Uomo su Il Fatto Quotidiano)

Siete talmente stupide da non.sapere che gli uomini magari si accompagnano a grissini, perché sono “sfoggiabili” ma poi si scopano le cicciotte se non ciccione.
E chi ragiona come voi, avvalora il loro modo di fare.
Fino a una 48, per una persona alta 1,80 come la modella, non é obesità, ma sovrappeso.
Fatevene una ragione, e godetevi la vita.
(Donna su ROBA DA DONNE)

ma dai su… nessuno vuole demonizzare il magro e/o il non magro, ma una che fa la modella DEVE essere magra, per una serie di motivi. E’ un lavoro, si indossano dei vestiti e per “cascare” bene il fisico deve essere all’altezza, una meno magra, può fare tantissimi altri lavori, altrettanto belli e interessanti (se si considera che fare la modella lo sia). Basta con questo populismo, con “curvy è bello” etc etc… Curvy non è bello, curvy è curvy… poi la bellezza è soggettiva e blablabla… Alla fine anche queste sono strategie di marketing, perchè si va a sollecitare tutto un inconscio femminile che con questi messaggi si scatena. Perchè nessuno protesta contro la pubblicità e le telepromozioni dove sono tutti belli? Perchè non prendere le veline brutte allora?
(Donna su alFemminile.com)

…..Non ci credo che la signorina vive bene così! !!! Qualche kiletto in più ok!! Ma qui si parla di grave obesità !! Riesce ad allacciare le scarpe, riesce a correre, riesce a camminare senza ustionarsi l interno cosce? E quante altre cose non riesce a fare!!! Tra le modelle scheletriche e lei c è la via di mezzo! !!!
(Donna su Leonardo.it)

Non vedo nulla che possa essere fotografato a scopo di autoconvinzione di bellezza! Questa è una donna molto molto in carne! Troppo ! Meglio vestita! Essere obbiettivi non significa essere spregevoli verso gli altri , ma grasso non è ne buono ne bello!!! Chi dice il contrario bleffa …o è grasso pure lui !
(Donna su Vogue Italia)

…ognuno sia libero di essere…ma esiste la plasticità, il bello. .l’armonia, perché osteggiare sino a questo eccesso la grazia del corpo e quindi una mmagine ed un lavoro che dovrebbe essere costruito su canoni di eleganza.
È fin troppo ovvio che conta di più il cervello che il corpo..tutto questo ,lo trovo fuori luogo.
(Donna su Vogue Italia)

È vero che bisogna amare il proprio corpo,ma questa non dovrebbe essere una scusante per arrivare a toccare l’esagerazione. Non si tratta solo di aspetto fisico ma di benessere interiore. Non sottovalutate i problemi di salute causati da un corpo in sovrappeso
(Donna su Il Mattino)

Identikit di una femminista

Identikit di una femminista

Non ho sempre avuto una coscienza femminista.

Di fatto, non ce l’ho ancora. “Femminista” lo stavo per mettere tra virgolette, come a dovermi in qualche modo giustificare. Non sono stata io la prima a definirmi così. No, sono stati gli altri, per ridere: oh raga attenzione a quello che dite che è arrivata la femminista… non fatele vedere l’immagine che poi si offende! 
(tratto da una storia tristemente vera)

Sono convinta che il motivo principale per cui sia difficile, per me – non per tutte –, definirmi femminista è che una parte significativa delle persone che conosco considera “la femminista” come un meme. “La femminista”, ah. Quella pazza, isterica (nella piena accezione popolare del termine), una che trova appagamento nel vittimismo, che vuole essere compatita, che odia tutti i maschi perché sono stronzi. Nel migliore dei casi, “la femminista” è tale perché brutta, invidiosa e vorrebbe vendicarsi di quegli uomini che non la considerano al pari delle altre (leggi: sessualmente accettabile). Nel peggiore, è quella che, preferibilmente nuda, si lancia addosso alle guardie inveendo con parole incomprensibili. Un meme, nient’altro.

Chiedo scusa alla lettrice e al lettore che potrebbero trovare ovvie le considerazioni che seguono, ma ritengo, almeno in questo primo articolo introduttivo, di doverle fare. Ebbene, il femminismo (indovinate un po’) non è ciò che l’hater medio pensa che sia. Riporto la definizione dell’Enciclopedia Treccani:

femminismo s. m. [der. di femmina]. – Movimento delle donne, le cui prime manifestazioni sono da ricercare nel tardo illuminismo e nella rivoluzione francese; nato per raggiungere la completa emancipazione della donna sul piano economico (ammissione a tutte le occupazioni), giuridico (piena uguaglianza di diritti civili) e politico (ammissione all’elettorato e all’eleggibilità), attualmente auspica un mutamento radicale della società e del rapporto uomo-donna attraverso la liberazione sessuale e l’abolizione dei ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne.

“Un mutamento radicale della società”: è un progetto ambizioso, lo so. Si propone, tra le altre cose, di combattere quegli stereotipi di genere che, per inciso, danneggiano proprio tutt*. Sì, tutt* con l’asterisco. Anche gli uomini sono vittime di spietati stereotipi e di una società più femminista potrebbero solamente beneficiarne. Ma allora da cosa nasce questa rabbia feroce che si scatena nell’esatto momento in cui viene nominato, anche solo per caso, il femminismo? Cosa spinge alcuni uomini e alcune donne a reagire con scherno, diffidenza, timore e così tanto, freddissimo, distacco?

Non ho sempre avuto una coscienza femminista, questo l’ho già detto, ma da qualche tempo ho iniziato a dubitare di tutto ciò che mi sta intorno. Mi sono tornate in mente, negli ultimi mesi, delle immagini del passato, alcuni piccoli flash che pensavo di aver dimenticato. Pillole della mia infanzia ma soprattutto dell’adolescenza, gli anni delle superiori. Alcune frasi brevi e decontestualizzate: “almeno io stasera scopo!” “quando farai sesso la prima volta, diventerai una troia” “come fa il suo ragazzo a volerla scopare? che schifo”, “non è l’unica botta che ti darei”, “tirati giù la maglia che ti stupro”, “quanto è brutta la tua amica? non portarla più”, “F. è una troia”… Mille e più frasi di odio, rivolte a me o a persone che conoscevo. Parole ignorate e passate inosservate per anni, apparentemente insignificanti, che avrei potuto dimenticare per sempre; ma così non è stato. Chi le ha pronunciate, invece, sono quasi sicura che non se le ricordi più. E così, con il fare tipico della ragazza un po’ impacciata che piano piano si avvicina a ciò che non aveva mai considerato – vuoi per l’educazione cattolica, vuoi per il non aver mai acquisito gli strumenti necessari per decodificare criticamente la realtà – ho incominciato a pensare a quante cose ho dato per scontate. È stata pazzesca, questa rilettura con lenti diverse del mio passato. È ancora in corso.

La differenza tra una femminista del mondo reale e una femminista del mondo di fantasie popolari alimentato dall’immaginario di internet è che la prima sa che la colpa non possa essere attribuita in modo esclusivo a quel soggetto che pronuncia la frase sessista, o importuna una donna, o la stupra, o la uccide. Il discorso, infatti, è molto complesso e non è possibile risolverlo con semplificazioni di alcun tipo; né quelle che dipingono le femministe come pazze invasate, né quelle che ritraggono l’uomo come uno stronzo molestatore incapace di portare a termine un semplice ragionamento. La coscienza femminista di cui parlo non è la convinzione che le donne siano vittime e gli uomini i loro carnefici, bensì la voglia di non smettere mai di interrogarsi, analizzare il mondo circostante con spirito critico e, se necessario, opporsi con forza a quelle condizioni socioculturali che vengono largamente accettate solo perché sono sempre esistite.

La rivoluzione a cui il femminismo auspica – come ci dice la definizione breve e non esaustiva, ma a suo modo abbastanza precisa, data dalla Treccani – è culturale. E non si sradica certo un’oppressione secolare cambiando la terminologia di un paio di leggi e limando il linguaggio, introducendo nuovi termini che, se non trovano il terreno pronto ad accoglierli, verranno inevitabilmente interpretati come un attacco nemico. Ed è così che qualcuno, ma anche qualcuna, si chiede: perché femminicidio? L’uccisione di un uomo conta meno? Ma le donne vogliono essere trattate come esseri superiori agli uomini?

No. La riposta è no. Loredana Lipperini, in data odierna, al Salone del Libro di Torino ha parlato di quanto sia impossibile pensare di lottare per un solo diritto. Chi lotta per un diritto, sta lottando per tutti i diritti. I femminismi si oppongono alle gabbie che intrappolano ogni persona in rigidi schemi e comportamenti vincolati; si oppone all’antica guerra tra i sessi, al soffocamento delle libertà individuali, alle disuguaglianze sociali e civili, alla violenza, al razzismo e alle discriminazioni di ogni tipo, all’omofobia in tutte le sue forme, alla disinformazione, all’uso inconsapevole dei social e potrei andare avanti.

A me, moltissime cose, fanno incazzare. E a volte faccio fatica a rimanere calma davanti all’ironia di chi mi chiama “femminista” così, per ridere. Come appellativo un po’ provocatorio, accondiscendente, a tratti affettuoso, a cui non si attribuisce alcun peso reale. L’equivalente di “quattrocchi”. Ho deciso di ritagliarmi uno spazio, seppur insignificante, da poter riempire con le mie considerazioni non particolarmente originali, né forse rivoluzionarie, né sicuramente profonde: ma mie.

Sono una tra molte che si alza in piedi e non si vuole sedere più.