“Non ti curar di loro”. E INVECE FALLO

“Non ti curar di loro”. E INVECE FALLO

C’è un verso dantesco, uno dei più celebri e citati, che dice così: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Il sommo poeta si riferisce agli ignavi dell’inferno; nell’uso comune, tuttavia, la frase significa in poche parole “non curarti di queste persone, lascia correre”.

È un concetto che mi viene ripetuto più o meno da quando avevo 6 anni. Sono cresciuta con questo dogma: se qualcuno ti dà fastidio, ignoralo. Se qualcuno è meschino con te, allontanati e non rivolgergli più la parola. Per tutta la vita ho pensato che fosse proprio questa la formula segreta per la felicità. Fottersene delle persone sgradevoli e giudicanti, quelle che ti fanno sentire emarginato e a disagio con te stesso. Bé, sto scrivendo questo articolo perché ho cambiato radicalmente idea.

Ecco alcune situazioni in cui mi è stato dato il sopracitato inutile consiglio:
– quando alle elementari venivo esclusa dal gruppo
– quando al campo estivo scoprii che alcune bambine mi prendevano in giro
– quando durante le superiori si diffusero voci false e infamanti su di me
– quando ero in bici e cinque persone mi urlarono insulti dietro
– ogni volta che ho ricevuto attenzioni insistenti non richieste
In queste (e altre) circostanze la prima cosa che mi venne detta fu “ignorali, lascia perdere, non pensarci”.
Ogni. Singola. Volta.

È chiaro che stiamo parlando di questioni non particolarmente gravi. Non sono qui a lamentarmi delle bambine cattivelle delle elementari, ci mancherebbe. Per molto tempo io stessa ho ritenuto opportuno provare a ignorare determinati individui.
Imparare a fregarmene. La bella utopia che si ripeteva sempre la ragazzina cicciottella con problemi relazionali che ero io non troppissimi anni fa. Ha mai funzionato? No. Ma non sono qui nemmeno per questo.
Sto scrivendo questo articolo perché non solo non sono mai riuscita a ignorare chi mi fece star male e chi mi mise in imbarazzo davanti al gruppo; ma anche se avessi avuto successo in questo – e non è il mio caso – avrei forse attenuato il sintomo ma non il problema reale. Un po’ come se avessi provato a curare la varicella con la crema per i brufoli.
Una persona che vive noncurante di tutti è probabilmente più felice di chi invece registra ogni occhiataccia, ogni risatina, ogni singolo commento dall’infanzia all’età adulta. Questo è un fatto che non posso negare. MA NON È LA VITTIMA CHE DEVE MODIFICARE IL SUO ATTEGGIAMENTO RISPETTO AGLI ALTRI.

Mi spiego meglio. Per farlo, devo precisare che non ci sono persone discriminate e persone discriminanti. Un discriminato può discriminare a sua volta, e anche il peggior stronzo può essere discriminato. Tenetelo a mente: questo servirà dopo.

Dicevo che fregarsene, di fatto, rende più felici. Se non me la fossi presa per ogni singolo torto subito probabilmente la qualità della mia vita sarebbe più alta. Ho sempre pensato che questo fosse un atteggiamento positivo, il lasciarmi scivolare le cose addosso. Ora invece lo reputo non solo inutile, ma controproducente e dannoso per la società. I motivi principali credo siano (almeno) due:
1) non tutti ce la fanno, di fatto. Alcune persone sono più sensibili di altre e ci rimarranno sempre male, anche se “non ha senso” e “non dovrebbero prendersela così tanto” (frasi abusate che sento dall’infanzia). Non sono loro ad essere sbagliate.
2) l’attenzione è al solito (AL SOLITO!) concentrata su chi subisce. Come per le molestie a sfondo sessuale o qualsiasi altro comportamento che vede una parte che esercita un’azione insistente e sgradevole e un’altra che la patisce. Cosa dovrebbe fare la “vittima”? Qual è il modo migliore per evitare queste situazioni? Come togliersi il più in fretta possibile dal pericolo? Come si dovrebbe reagire? A meno che non abbia compiuto un reato, come nel caso gravissimo dello stupro, generalmente ben poche parole vengono spese su ciò che NON avrebbe dovuto fare il colpevole in primo luogo.

Smettiamola di consigliare a chi viene discriminato, qualunque sia il motivo, di non prendersela. Io ho passato i primi 23 anni della mia vita a provarci con tutte le mie forze, solo per arrivare alla conclusione che non ci riesco. Ma come si fa allora a cambiare la società?
Un modo c’è: non discriminando. Come vi ho più o meno accennato un paragrafo fa, tutti quanti – direttamente o indirettamente, coscienti o incoscienti – esercitiamo discriminazioni. Ecco qualche esempio di discriminazione accidentale:
– la volta che sentii una persona, tra l’altro attivissima in ambito di volontariato e inclusione delle minoranze discriminate, dire che i grassi non dovrebbero indossare gli shorts perché non stanno affatto bene e che se lei fosse nei loro panni (NON LO È) si metterebbe gonne lunghe tutto il tempo
– quando, vedendo arrivare uno che mi stava antipatico, commentai ad alta voce il suo abbigliamento sciatto
– quando le persone con cui ero uscita appellarono come “troia” una ragazza estroversa, vestita aderente e con molti amici maschi E IO RIMASI IN SILENZIO
– quando da adolescente giudicai male una mia amica per la sua decisione di fare sesso con due persone diverse lo stesso giorno
– tutte le volte che ho involontariamente fatto sentire qualcuno escluso e rifiutato

Le discriminazioni, dalle più gravi a quelle apparentemente insignificanti, si combattono in attivo, cioè NON ESERCITANDOLE. Il victim blaming non serve a niente, non risolve il problema alla radice ma anzi legittima e giustifica i comportamenti discriminanti. Siete presi di mira? Piuttosto lagnatevi tutto il tempo ma non fate per nessuna ragione al mondo finta di niente.

Il problema non è reagire male alle discriminazioni, non riuscire a “fregarsene di ciò che pensa la gente” (altra frase abusatissima e priva di senso). L’unico problema, l’unico e il solo, è la discriminazione in sé: è questa che dobbiamo combattere.
Tutto il resto non conta.

(In foto: Rachel Earl di “My Mad Fat Diary”)

Identikit di una femminista

Identikit di una femminista

Non ho sempre avuto una coscienza femminista.

Di fatto, non ce l’ho ancora. “Femminista” lo stavo per mettere tra virgolette, come a dovermi in qualche modo giustificare. Non sono stata io la prima a definirmi così. No, sono stati gli altri, per ridere: oh raga attenzione a quello che dite che è arrivata la femminista… non fatele vedere l’immagine che poi si offende! 
(tratto da una storia tristemente vera)

Sono convinta che il motivo principale per cui sia difficile, per me – non per tutte –, definirmi femminista è che una parte significativa delle persone che conosco considera “la femminista” come un meme. “La femminista”, ah. Quella pazza, isterica (nella piena accezione popolare del termine), una che trova appagamento nel vittimismo, che vuole essere compatita, che odia tutti i maschi perché sono stronzi. Nel migliore dei casi, “la femminista” è tale perché brutta, invidiosa e vorrebbe vendicarsi di quegli uomini che non la considerano al pari delle altre (leggi: sessualmente accettabile). Nel peggiore, è quella che, preferibilmente nuda, si lancia addosso alle guardie inveendo con parole incomprensibili. Un meme, nient’altro.

Chiedo scusa alla lettrice e al lettore che potrebbero trovare ovvie le considerazioni che seguono, ma ritengo, almeno in questo primo articolo introduttivo, di doverle fare. Ebbene, il femminismo (indovinate un po’) non è ciò che l’hater medio pensa che sia. Riporto la definizione dell’Enciclopedia Treccani:

femminismo s. m. [der. di femmina]. – Movimento delle donne, le cui prime manifestazioni sono da ricercare nel tardo illuminismo e nella rivoluzione francese; nato per raggiungere la completa emancipazione della donna sul piano economico (ammissione a tutte le occupazioni), giuridico (piena uguaglianza di diritti civili) e politico (ammissione all’elettorato e all’eleggibilità), attualmente auspica un mutamento radicale della società e del rapporto uomo-donna attraverso la liberazione sessuale e l’abolizione dei ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne.

“Un mutamento radicale della società”: è un progetto ambizioso, lo so. Si propone, tra le altre cose, di combattere quegli stereotipi di genere che, per inciso, danneggiano proprio tutt*. Sì, tutt* con l’asterisco. Anche gli uomini sono vittime di spietati stereotipi e di una società più femminista potrebbero solamente beneficiarne. Ma allora da cosa nasce questa rabbia feroce che si scatena nell’esatto momento in cui viene nominato, anche solo per caso, il femminismo? Cosa spinge alcuni uomini e alcune donne a reagire con scherno, diffidenza, timore e così tanto, freddissimo, distacco?

Non ho sempre avuto una coscienza femminista, questo l’ho già detto, ma da qualche tempo ho iniziato a dubitare di tutto ciò che mi sta intorno. Mi sono tornate in mente, negli ultimi mesi, delle immagini del passato, alcuni piccoli flash che pensavo di aver dimenticato. Pillole della mia infanzia ma soprattutto dell’adolescenza, gli anni delle superiori. Alcune frasi brevi e decontestualizzate: “almeno io stasera scopo!” “quando farai sesso la prima volta, diventerai una troia” “come fa il suo ragazzo a volerla scopare? che schifo”, “non è l’unica botta che ti darei”, “tirati giù la maglia che ti stupro”, “quanto è brutta la tua amica? non portarla più”, “F. è una troia”… Mille e più frasi di odio, rivolte a me o a persone che conoscevo. Parole ignorate e passate inosservate per anni, apparentemente insignificanti, che avrei potuto dimenticare per sempre; ma così non è stato. Chi le ha pronunciate, invece, sono quasi sicura che non se le ricordi più. E così, con il fare tipico della ragazza un po’ impacciata che piano piano si avvicina a ciò che non aveva mai considerato – vuoi per l’educazione cattolica, vuoi per il non aver mai acquisito gli strumenti necessari per decodificare criticamente la realtà – ho incominciato a pensare a quante cose ho dato per scontate. È stata pazzesca, questa rilettura con lenti diverse del mio passato. È ancora in corso.

La differenza tra una femminista del mondo reale e una femminista del mondo di fantasie popolari alimentato dall’immaginario di internet è che la prima sa che la colpa non possa essere attribuita in modo esclusivo a quel soggetto che pronuncia la frase sessista, o importuna una donna, o la stupra, o la uccide. Il discorso, infatti, è molto complesso e non è possibile risolverlo con semplificazioni di alcun tipo; né quelle che dipingono le femministe come pazze invasate, né quelle che ritraggono l’uomo come uno stronzo molestatore incapace di portare a termine un semplice ragionamento. La coscienza femminista di cui parlo non è la convinzione che le donne siano vittime e gli uomini i loro carnefici, bensì la voglia di non smettere mai di interrogarsi, analizzare il mondo circostante con spirito critico e, se necessario, opporsi con forza a quelle condizioni socioculturali che vengono largamente accettate solo perché sono sempre esistite.

La rivoluzione a cui il femminismo auspica – come ci dice la definizione breve e non esaustiva, ma a suo modo abbastanza precisa, data dalla Treccani – è culturale. E non si sradica certo un’oppressione secolare cambiando la terminologia di un paio di leggi e limando il linguaggio, introducendo nuovi termini che, se non trovano il terreno pronto ad accoglierli, verranno inevitabilmente interpretati come un attacco nemico. Ed è così che qualcuno, ma anche qualcuna, si chiede: perché femminicidio? L’uccisione di un uomo conta meno? Ma le donne vogliono essere trattate come esseri superiori agli uomini?

No. La riposta è no. Loredana Lipperini, in data odierna, al Salone del Libro di Torino ha parlato di quanto sia impossibile pensare di lottare per un solo diritto. Chi lotta per un diritto, sta lottando per tutti i diritti. I femminismi si oppongono alle gabbie che intrappolano ogni persona in rigidi schemi e comportamenti vincolati; si oppone all’antica guerra tra i sessi, al soffocamento delle libertà individuali, alle disuguaglianze sociali e civili, alla violenza, al razzismo e alle discriminazioni di ogni tipo, all’omofobia in tutte le sue forme, alla disinformazione, all’uso inconsapevole dei social e potrei andare avanti.

A me, moltissime cose, fanno incazzare. E a volte faccio fatica a rimanere calma davanti all’ironia di chi mi chiama “femminista” così, per ridere. Come appellativo un po’ provocatorio, accondiscendente, a tratti affettuoso, a cui non si attribuisce alcun peso reale. L’equivalente di “quattrocchi”. Ho deciso di ritagliarmi uno spazio, seppur insignificante, da poter riempire con le mie considerazioni non particolarmente originali, né forse rivoluzionarie, né sicuramente profonde: ma mie.

Sono una tra molte che si alza in piedi e non si vuole sedere più.